La testimonianza di uno dei primi contagiati dal Coronavirus a Lecco: "Sono fortunato ad essere qui, senza fiato ma vivo"
Roberto Timpano racconta i suoi due mesi di calvario dopo il contagio del virus Covid
"Ho perso un collega, un altro è in terapia intensiva da oltre trenta giorni e non si vede la luce... Io mi sento molto fortunato a essere ancora qui e ancora non mi sento di parlarne". E’ trascorso un mese da quando abbiamo chiesto a Roberto Timpano - che da tempo collabora con il Giornale di Lecco scrivendo di alpinismo, la sua grande passione - di raccontare la sua personale esperienza di "contagiato dal coronavirus". Il 24 marzo scorso era appena stato dimesso dall’ospedale Manzoni di Lecco. Ci era entrato venerdì 28 febbraio, portato da un’ambulanza, con i sintomi conclamati di una polmonite in corso. Ma non era "ancora" Covid-19. O meglio, i due tamponi eseguiti dopo il ricovero, a distanza di due giorni l’uno dall’altro come da prassi, erano risultati entrambi negativi. Il virus ha giocato a nascondino fino a quando Roberto si è aggravato al punto di dover essere trasferito in terapia intensiva.
La testimonianza di uno dei primi contagiati dal Coronavirus a Lecco
"Tutto è iniziato sabato 22 febbraio, con una febbre alta e persistente. Essendo io soggetto alle influenze stagionali (me la piglio tutti gli anni) non mi sono preoccupato" ricorda. Erano però i giorni in cui esplodeva il primo focolaio di Coronavirus in Italia, a Codogno. "Mi sono assentato dal lavoro per malattia lunedì 24 febbraio. Il mercoledì successivo stavo ancora molto male. Il venerdì il mio medico mi ha detto di chiamare l’ambulanza". Quello stesso giorno un collega di Roberto, impiegato dipendente di Poste Italiane, si era sentito male sul posto di lavoro, l’ufficio postale centrale di Lecco, in via Dante. Portato via dal 118, si era rivelato uno dei primissimi casi di contagio in città, il campanello d’allarme di una epidemia ritenuta fino ad allora vaga e lontana. Invece era già arrivata e cominciava a mietere vittime. "Io e il mio collega siamo entrati contemporaneamente in ospedale. Sei giorni dopo, il 5 marzo, tutti e due siamo stati spostati in terapia intensiva. Io ne sono fortunosamente uscito dopo tre settimane, con sedici chili in meno, la massa muscolare annichilita e i polmoni sfiatati, ma vivo. Lui, che ha 47 anni, sta ancora lottando. Un altro collega di Merate invece non ce l’ha fatta. E aveva solo 58 anni" chiosa Roberto.
Il ricovero e il peggioramento
"I primi giorni in ospedale, nonostante tre pastiglie al giorno di Tachipirina 1000, la febbre non passava. I tamponi erano negativi, ma il professore che mi seguiva era sicuro che fosse Covid-19 e ha cominciato a somministrami antivirali. Aveva ragione. La Tac ha poi rivelato la polmonite bilaterale interstiziale che mi stava consumando. Subito dopo, all’improvviso, sono andato in ipossia e di notte mi hanno urgentemente trasferito in terapia intensiva. Ho passato cinque giorni con il casco C-Pap in testa. Una cosa che credo si possa sopportare solo se si è in stato di completa incoscienza. Io invece ero molto lucido e mi dava fastidio tutto, dall’elastico attorno al collo al rumore della ventola. Fatichi a respirare, non riesci a dormire. Sei vivo in una condizione di prostrazione assoluta".
L'inferno in ospedale
In quegli stessi giorni il Manzoni di Lecco diventava un campo di battaglia, investito da uno tsunami di ricoveri in emergenza. "Io non sapevo cosa stesse succedendo. Ma c’è stato un giorno, verso la fine della mia degenza monitorata nel reparto di terapia intensiva, quando cominciavo a sentirmi meglio, con i parametri vitali in netta ripresa, che mi sono accorto che medici e infermieri erano come spariti attorno a me. Ho allungato l’occhio e li ho visti che correvano avanti e indietro come disperati, dandosi da fare attorno a letti e lettini. Ricordo una sera, quando sono entrati da me due medici. Erano a fine turno, esausti. Ma dovevano ancora fare il giro di chiamate quotidiane ai famigliari dei pazienti per informarli sulla situazione. Io stavo meglio. Uno dei due mi ha guardato e mi ha chiesto: “Vuoi chiamarla tu tua moglie?”. Con quella telefonata ho capito che l’avevo scampata. Io mi ritengo superfortunato per come ho vissuto questa esperienza: grazie all’umanità rassicurante dei medici e delle infermiere che si sono presi cura di me, non ho mai avuto percezione della terribile gravità della mia condizione. L’ho realizzata dopo, quando mi sono sentito dire da due medici, uno dopo l’altro, la stessa frase: “Lei ha avuto una polmonite molto importante, e per essere nella situazione in cui è oggi ha fatto grandi passi avanti”. Mi sono invece accorto di un’altra cosa: c’era un esercito di gente che pregava per me, persone che mi hanno sostenuto tutti i giorni con messaggi di incoraggiamento. Per chi crede, questo è importante".
Le dimissioni
Roberto Timpano è stato dimesso il 24 marzo. "Sono uscito dall’ambulanza e ho affrontato la salita verso casa mia. Pensavo non mi avrebbero retto le gambe considerato il fisico debilitato che mi ritrovavo. Invece, a tradirmi è stato il fiato. Quando sono arrivato alla porta credevo di morire. Ho impiegato un quarto d’ora steso sul letto per riprendermi. Nei giorni successivi fare qualunque sforzo è stato un calvario, anche solo fare la doccia. Per tre settimane ho vissuto confinato nella mia camera da letto, con mia moglie e mio figlio che dormivano in un’altra stanza. Li vedevo dall’alto delle scale. Ci siamo ricongiunti solo a Pasqua. Mio figlio ha sofferto tantissimo questa situazione, non vedeva l’ora di riabbracciarmi. Adesso, appena può, mi si appiccica addosso".
La guarigione
Le dimissioni dall’ospedale non sono coincise con la certificazione della avvenuta guarigione. C’è voluto altro tempo. "Dopo due settimane di quarantena, mercoledì 8 aprile ho avuto l’esito del primo tampone: negativo. Il secondo è arrivato una settimana dopo, il 15 aprile: negativo. Finalmente martedì 21 il medico mi ha rilasciato il “foglio di via”: sono guarito - riepiloga Roberto - Teoricamente dal 4 maggio posso rientrare al lavoro".
Roberto ha naturalmente pensato e ripensato a quando e come abbia contratto il contagio. Del resto il suo lavoro allo sportello di un ufficio postale lo espone al contatto di una miriade di persone. "Adesso per me è più importante tornare pian piano in pista. Con la consapevolezza che la nostra vita non potrà più essere quella di prima, per nessuno2.