356 giorni dall'incubo: parlano i primi lecchesi contagiati dal Covid
Gaetano D'Urso: "Sul mio petto c’è ancora la piaga da decubito che si era creata mentre giacevo in coma". Roberto Timpano: "Non mi faccio condizionare da nuove paure legate alle varianti del virus, ma ho la consapevolezza del rischio, sempre"
Gaetano Urso, 47 anni di Calolzio, porterà sempre con sé la cicatrice di quei «90 giorni di buio» in Terapia intensiva. «Mi capita di trovarmi davanti allo specchio. Sul mio petto c’è ancora la piaga da decubito che si era creata mentre giacevo in coma, che è poi diventata un’ulcera che non è ancora del tutto guarita. Non ho ricordi, ma ho questa che i miei figli e i miei amici mi dicono essere una ferita di guerra» racconta il quarantasettenne calolziese, impiegato delle Poste. Il suo fu il primo caso acclarato di contagio Covid nel Lecchese e la notizia, a Lecco, si diffuse esattamente un anno fa, il primo marzo 2020.
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356 giorni dall'incubo: parlano i primi lecchesi contagiati dal Covid
Ha trascorso cinque mesi, dal 28 febbraio fino a maggio inoltrato, in ospedale, prima al Manzoni e poi in riabilitazione a Bellano. Ne è uscito con un’insufficienza renale che lo ha costretto alla dialisi fino a qualche settimana fa. «Ora prendo farmaci e sto attento all’alimentazione. Non mi muovo ancora benissimo. Non ho ancora ripreso il lavoro» spiega. E poi c’è il «buco» di quei mesi sospesi tra la vita e la morte. «Un tempo che non ricordo, me lo hanno raccontato mia moglie e i miei figli. Oggi sento parlare delle varianti del virus e ho paura - confessa - So di avere sviluppato anticorpi che mi proteggeranno almeno per un po’ di mesi. Ma mi tengo lontano da ogni rischio, da ogni situazione che possa tramutarsi in assembramento. I miei figli mi prendono in giro: “Papà, almeno in casa, togliti la mascherina”»
La speranza nei vaccini
.Il faro per uscire dal tunnel, sono i vaccini. «Non sarò certo tra i primi ad essere convocato. Aspetterà con pazienza il mio turno e lo farò. Per la sicurezza mia, dei miei cari e per ribadire una volta di più la nuda verità a chi, incredibilmente, continua a non credere che il Covid esiste e continua a uccidere. Provo sconcerto, rabbia a sentire certi discorsi. Tanto più quando a sostenere certe tesi, che banalizzano la situazione che stiamo vivendo, sono persone anche di un certo livello culturale». «A volte sono le stesse persone che fanno un balzo indietro appena dico che io il Covid l’ho avuto e non certa in maniera leggera - conclude Gaetano - E allora proprio non capisco l’irrazionalità che governa il mondo».
Roberto Timpano, lecchese di Maggianico
E' passato un anno da quando Roberto Timpano, lecchese di Maggianico, ebbe confermata la diagnosi Covid per la polmonite che lo aveva costretto al ricovero ospedaliero. «Avevo iniziato a stare male una settimana prima» ricorda. Impiegato nell’ufficio postale di via Dante a Lecco, il suo contagio fu tra i primi riscontrati nella nostra provincia. Il coronavirus colpì nel contempo altri due suoi colleghi, Gaetano Urso e Giovanni Calogero Rizzo, 61 anni, meratese. Quest’ultimo non è sopravvissuto, mentre Urso ha trascorso oltre due mesi e mezzo intubato in Terapia intensiva.
«Mi ritengo tra i fortunati, anche se dalle mie cartelle cliniche non si direbbe» dice oggi Timpano. Runner di montagna, quando fu dimesso per recuperare il fiato occorso per la salitella dal cancello alla porta di casa impiegò un quarto d’ora. «Ho ripreso a giugno a camminare, piano piano a “corricchiare” e il fiatone ogni tanto si ripresenta». Timpano è tornato al lavoro, allo sportello delle poste: «Un osservatorio sulla diversa sensibilità delle persone verso la pandemia. Personalmente non sono preoccupato, ma vivo in allerta costante. Non mi faccio condizionare da nuove paure legate alle varianti del virus, ma ho la consapevolezza del rischio, sempre». Lo dice lui che può contare sull’immunizzazione (temporanea, stimata sui 6/8 mesi), l’unico lascito positivo del virus. «Ho effettuato diversi richiami di controllo - dice - Pare che i miei anticorpi siano al top. Ma questo non mi dissuade dal mettermi in fila per la vaccinazione. Quando sarà il mio turno la farò anch’io. Un dovere».
Il ricordo più vivido dell’anno trascorso?
«L’8 marzo: ero in Intensiva e per la prima volta mi sono sentito solo. Quel giorno fu tra i più drammatici: continuavano ad arrivare ambulanze, medici e infermieri correvano avanti e indietro. Poi è arrivata la sera. E quelle stesse persone, traumatizzate dalla fatica, riuscivano lo stesso a sorridermi. Ho messo da parte i miei crucci, le mie “pretese”. Sono grato. Lo sarò sempre».