In prima linea contro il Coronavirus tra il dolore dei pazienti e la paura di diventare vettore del Covid. Parla una giovane dottoressa di Lecco FOTO
"La vita personale e soprattutto familiare è cambiata radicalmente. Ci sono colleghi che hanno deciso di traslocare e vivono ormai da mesi soli, altri abitano ancora con la famiglia ma la scelta non è stata facile"
30 anni e un lavoro quotidiano in prima linea contro il Coronavirus, non in corsia, ma in una delle Unità Speciali di Continuità Assistenziali , le cosiddette Usca, attivate sul territorio dell' Ats Brianza. Lei è la dottoressa Francesca Leonardi, residente a Lecco, coordinatrice dell'Unità USCA di Monza.
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In prima linea contro il Coronavirus
La dott.ssa Leonardi spiega in cosa consiste l’attività che i medici delle Usca svolgono svolgono: ”Generalmente le unità USCA, quando arrivano al domicilio, cercano inizialmente di ricostruire la storia clinica del paziente, indagano per capire da quando ci sono sintomi riconducili al Coronavirus e se ci sono stati contatti con persone positive. Sentono comunque il medico curante per ulteriori indicazioni. Dopodichè lo visitano, misurano la saturazione dell’ossigeno nel sangue, auscultano i polmoni e valutano la deambulazione. A questo punto parlano con paziente e familiari, verificano la terapia (contattando il curante). Il contatto con il curante è necessario e imprescindibile”.
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Il timore dei pazienti positivi al Coronavirus di contagiare i familiari
Quest’emergenza ha sicuramente un impatto forte anche dal punto di vista psicologico, infatti: “La principale paura dei pazienti con sintomi riconducili a COVID19 e non sottoposti a tampone è ovviamente quella di essere positivi e spesso cercano una smentita anche se sono consapevoli che è impossibile (es. “ma dottoressa io ho questi sintomi, ma non ho il coronavirus…”). I pazienti positivi hanno paura soprattutto di poter contagiare i familiari (specialmente se in casa ci sono anziani o bambini). L’altro grande interrogativo è capire quando potranno tornare “alla vita normale” (chi al lavoro o chi uscire semplicemente per andare al supermercato) senza rischiare di contagiare nessuno. In moltissime persone appare evidente un elevato senso civico e di rispetto. verso il prossimo: personalmente penso che preoccuparsi per “gli altri” sia l’unico modo per uscirne insieme”.
"Dottoressa tornerò a casa?"
La dottoressa Leonardo racconta un episodio che le è rimasto impresso durante un intervento: “Vengo chiamata al domicilio di un paziente uomo di circa 70 anni con sintomi respiratori e febbre da circa 10 giorni, lui vive a casa con la moglie e il figlio. La moglie e il figlio stanno bene, mentre lui ha già iniziato la terapia antibiotica da qualche giorno, ma le condizioni stanno peggiorando. Arrivo in casa con tutti i dispositivi e vengo guardata subito con aria scettica: ai familiari non è molto chiara la situazione, il COVID si è diffuso da pochi giorni e non è ben chiaro cosa comporti… Entro in camera e trovo il paziente sdraiato a letto… Dopo un primo approccio, inizio a visitarlo (classica polmonite bilaterale), saturazione bassa, non ho inizialmente il coraggio di farlo deambulare (il quadro è già chiaro e il paziente è da ospedalizzare). Sto cercando il modo in cui dirglielo quando all’improvviso lui mi guarda fisso e mi dice: “dottoressa lo so che ho il coronavirus…e so che devo andare in ospedale, tornerò a casa?”.
La paura di diventare vettori del Covid
Un lavoro sicuramente impegnativo anche per i Medici delle squadre USCA: “Quando arriva una segnalazione un medico ha paura, quindi è concentrato e preoccupato al tempo stesso. I pensieri in testa sono tantissimi: seguire le istruzioni per una vestizione corretta (non è così facile come può sembrare), trovare l’abitazione (talvolta non è così automatico), cercare di non contagiarsi, ma al tempo stesso far tutto il possibile per aiutare il paziente, disinfettare i dispositivi. Le cose da ricordare sono molte sia da un punto di vista di protezione sia da un punto di vista medico.Ma l’aspetto che colpisce di più ovviamente è il dover limitare i contatti umani. Il dover cercare un modo indiretto per far capire la nostra vicinanza al paziente. Mai come ora ci si rende conto di quanto supporto possa dare una “mano sulla spalla del paziente”. Poi certamente, un po’ il pensiero di diventare noi stessi vettori del COVID19 non ci abbandona mai”.
Medici che vicino da soli da mesi
“La vita personale e soprattutto familiare – conclude la dott.ssa Leonardi - è cambiata radicalmente. Ci sono colleghi che hanno deciso di traslocare e vivono ormai da mesi soli, altri abitano ancora con la famiglia ma la scelta non è stata facile. Personalmente io vivo ancora a casa con mio marito (non ne ha voluto sapere di andarsene quando gliel’ho chiesto all’inizio dell’emergenza e lo ringrazio) e non so come farei senza: è un aiuto prezioso nella disinfezione tutte le volte che rientro in casa e un supporto psicologico e morale fondamentale. Ovviamente però tutti noi medici limitiamo i contatti con i conviventi, passiamo molto tempo a disinfettare tutto e resta forte la paura di contagiare le persone care. Penso che le USCA abbiano insegnato a noi sanitari a collaborare. Siamo tutti “sulla stessa barca” in questa situazione di emergenza mondiale e ognuno può dare il proprio contributo in forma diversa. Vi assicuro che dopo una lunga giornata passata a contatto con pazienti COVID 19 positivi, vedere un sorriso, ricevere un bel messaggio magari da amici o familiari lontani fa passare molta della stanchezza e dello stress accumulato”.