Economia ai tempi del Coronavirus

Neppure la pandemia frena la corsa di Technoprobe

"L'inizio è stato molto complicato, abbiamo corso il rischio di fermare l’azienda perché i nostri codici Ateco non rientravano tra le attività essenziali, ma poi siamo riusciti a far comprendere il ruolo strategico della nostra produzione"

Neppure la pandemia frena la corsa di Technoprobe
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Il comparto  tecnologico non è stato frenato dalla pandemia. Lo conferma Technoprobe di Cernusco Lombardone,  la multinazionale tascabile leader nella produzione di apparecchiature per testare i chip dei colossi dell’hi-tech mondiale

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«E’ un settore che stava andando bene e che ha avuto una spinta ulteriore proprio con il Covid - confermano i fratelli Roberto e Cristiano Crippa -  Cresce la richiesta di tablet, smartphone e di comunicazioni a distanza. La tecnologia 5G sta diventando realtà. Uno sviluppo forte si sta avendo nella guida autonoma e nelle nuove tecnologie dell’automotive. E noi stiamo aumentando il nostro market share, la nostra quota di mercato, lavorando per le aziende che operano in questi settori».

Il Covid ha modificato Technoprobe?

«L'inizio è stato molto complicato, abbiamo corso il rischio di fermare l’azienda perché i nostri codici Ateco non rientravano tra le attività essenziali, ma poi siamo riusciti a far comprendere il ruolo strategico della nostra produzione».

Come avete gestito l'epidemia?

«Il primo problema è stato quello di affrontare la comprensibile paura delle persone: abbiamo lasciato la libertà a chi lo desiderava di lavorare da casa, ma poi quasi tutti hanno preferito restare in azienda. Abbiamo riorganizzato la produzione e i servizi su tre turni, sette giorni su sette, per rispettare i distanziamenti. La sede è stata dotata di tutti i presidi necessari: mascherine, guanti, schermi, igienizzanti, garantendo la massima sanificazione degli ambienti di lavoro. Non abbiamo mai avuto problemi di fornitura di Dpi, tanto che abbiamo fatto donazioni anche ad alcune strutture sanitarie del territorio. Resta solo un rammarico: non essere riusciti a instaurare un dialogo più costruttivo con il sindacato».

In che senso?

«All'inizio della pandemia la Fiom ha fatto pressione per chiudere l'azienda. Un'ipotesi che abbiamo cercato di scongiurare con tutte le forze perché ci avrebbe tagliato le gambe.  Se avessimo fatto il lockdown oggi, anziché 700 dipendenti, nella migliore delle ipotesi ne avremmo 300;  lo sviluppo sarebbe stato definitivamente azzerato e avremmo perso importanti quote di mercato a favore dei nostri concorrenti che non hanno mai smesso di lavorare. Abbiamo rispettato tutti i protocolli rigidissimi e concordati con l'Ats. Siamo imprenditori, siamo molto legati al nostro personale e siamo i primi interessati al loro benessere e alla loro sicurezza».

Quante persone lavorano oggi in smart working?

«Sono circa 200. Lo smart working è un'esperienza positiva. Finita l'emergenza,  lasceremo facoltà ai collaboratori di scegliere se lavorare da casa, in azienda o fare un mix. Lavorare da casa su obiettivi è un modo per gestire meglio lavoro e esigenze famigliari ed è una cosa molta apprezzata dai nostri collaboratori. Oggi molte persone, però, dopo queste esperienza di smart working, sentono la necessità di mantenere un contatto fisico con l'azienda, di preservare il dialogo e il confronto diretto con i colleghi: la nostra idea è quella di suggerire 3/4 giorni a casa e 1/2 in sede».

 

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