MALGRATE-GALBIATE

Travolta e abbandonata: il grido di un figlio a un anno dalla morte di mamma Luisa

Il figlio di Luisa Emilia Spreafico: "Mia madre meritava giustizia, non l'oblio di una strada buia"

Travolta e abbandonata: il grido di un figlio a un anno dalla morte di mamma Luisa
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Toccante e profonda la lettera scritta da Mattia Butta Gonzales, e inviata da Praga, dove insegna all'università, a distanza di poco più di un anno dal tragico incidente stradale che ha portato via la vita alla sua amata mamma, Luisa Emilia Spreafico. La donna, 69 anni, residente a Malgrate, era stata travolta da un'auto a Galbiate, nella frazione di Bartesate, e abbandonata priva di conoscenza in strada, in via per Colle Brianza.

Il violento impatto con il veicolo l'aveva fatta sbalzare a terra con violenza inaudita, procurandole ferite gravissime. La donna alla guida dell'auto non si era però fermata a prestare soccorso, e, quando alcuni passanti avevano trovato Luisa riversa a terra, la 69enne si trovava sotto il guard rail posto a lato dell'arteria stradale in arresto cardio circolatorio e con traumi multipli.

Trasferita all'ospedale Manzoni di Lecco, era spirata 48 ore dopo. Dopo giorni di serrate indagini le forze dell'ordine avevano stretto il cerchio: una 62enne di Ello è stata infatti iscritta sul registro degli indagati per il reato di omicidio stradale aggravato dalla fuga. Indagato anche il consorte con l'ipotesi di  reato di favoreggiamento. 

Travolta e abbandonata: il grido silenzioso di un figlio a un anno dalla morte di mamma Luisa

 

'Hanno investito la mamma'
Così, senza nemmeno dirmi 'ciao', diretta come un pugno allo sterno che ti toglie il respiro e ti disorienta.

È passato ormai un anno da quella telefonata che interruppe una serena giornata di inizio estate mentre esaminavo l’ultimo studente della sessione. Dopo, finiti gli esami, sarebbe partita la bella stagione, e invece è iniziato l’inferno.

È passato un anno dalla corsa disperata verso l’aeroporto per prendere il primo volo disponibile verso l’Italia nella speranza di non arrivare troppo tardi. Un anno da quella sera in cui sono entrato nella terapia intensiva e ho ascoltato il silenzio dell’impotenza. Un silenzio fatto di dolore soffocato dai farmaci e ventole di aereazione coi bip-bip dei macchinari che tengono le vite appese a un filo: un soffio e se ne vanno. In terapia intensiva c’è un silenzio che dilata il tempo dell’attesa. Perché tutto d’un tratto ti rendi conto che non puoi fare niente se non aspettare. Sei totalmente impotente.

È passato un anno da quando mi sono trovato dentro una stanza con un medico che faceva mille domande per la donazione degli organi, in un processo che sembrava non finire mai. Un anno da quando col pollice ho fatto una croce in fronte a mia mamma e le ho detto ciao.

Quella sera sono arrivato a Bartesate quando ormai era buio, e passando sulla curva in cui è stata uccisa mia mamma ho pensato 'qui non lo troveranno mai', mentre proprio in quei minuti, avrei saputo solo più tardi, era già sotto interrogatorio.

È passato un anno da quando la mia bimba mi ha chiesto 'dov’è nonna Luisa?' e io non ho saputo risponderle. E ancora adesso non so cosa dirle.

Un anno da quando sono tornato a Praga e ho provato a ripartire, cercando di scacciare i pensieri peggiori e irrimediabili dalla testa. È stato un anno di attesa. Ogni giorno ho aperto la buca delle lettere sperando di trovare un messaggio di scuse. Che non sono mai arrivate.

Un anno di psicoterapia, per provare ad avere una vita normale. Il primo anno di psicoterapia, a cui ne seguiranno altri, perché per liberarti dalle ombre scure che ti trascini ovunque non c’è il rito abbreviato. Un anno in cui sono stato zitto anche quando volevo gridare. Che mia mamma era una persona perbene e che merita giustizia.

Già, un anno di attesa di giustizia. Un anno aspettando di riprendere quell’aereo ma questa volta per presenziare al processo, quel processo che dovrà rendere rispetto e dignità a mia madre. Una dignità che le è stata negata quando è stata abbandonata sul ciglio di una strada come non si fa nemmeno con le bestie.

Ora, dopo un anno, pretendo quella giustizia. Quella giustizia che mi consenta di poter insegnare a mia figlia che si può fidare. Quella giustizia che mi consenta di fare un passo, almeno uno, nella direzione giusta. Perché per il dolore di chi rimane non esiste il patteggiamento. Per la nostra di pena non c’è alcuno sconto.

Mattia Butta Gonzales,
figlio di Luisa Emilia Spreafico

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