Le donne dopo la violenza

La piaga del mondo femminile vista attraverso le comunità dei centri Artemisia: «Così le nostre ospiti a tornano protagoniste delle proprie scelte». I centri di Lecco e Merate contano complessivamente 40 posti letto, un luogo di rifugio per mamme-figli

Le donne dopo la violenza
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La violenza contro le donne, il giorno dopo. C’è un luogo dove si coglie in pieno quali segni lascia questa terribile piaga nel corpo e nell’animo di chi la subisce, e sono le comunità, dove una donna viene accompagnata per un percorso di recupero a seguito di denuncia.

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Nel territorio lecchese operano La Bussola (a Merate) e Casa La Vita (a Lecco), due strutture parte dei Centri Artemisia, quasi 40 posti letto con una particolarità: sono comunità “madre-bambino”, luoghi in cui viene accolto chi ha subìto violenza, assieme ai loro bambini. Due strutture parte della rete del Sentiero, che sul tema opera anche attraverso il progetto Young Inclusion, volto a favorire l’inclusione sociale di soggetti fragili grazie al sostegno di 1 milione e 200mila euro del programma Interreg Italia-Svizzera, Asse 4 Integrazione.

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La violenza contro le donne

A coordinare le attività dei due centri, Patrizia Gilardi e Linda Pozzi, entrambe da quasi 15 anni al lavoro qui: «Quante donne abbiamo incontrato? Quasi un’ottantina a testa», dicono. «Arrivano da noi su indicazione di tribunale dei minorenni o dei servizi sociali, e talvolta il minore che è con loro ha anche assistito alla violenza in casa. Il nostro compito principale è verificare e sostenere le competenze genitoriali: nella maggior parte dei casi il figlio viene collocato in comunità insieme alla madre perché si è valutato che tale rapporto sia da conservare». I percorsi hanno durata variabile, fondamentale è la collaborazione con il Tavolo Istituzionale per il contrasto della violenza sulla donna, e con associazioni del territorio, come “Telefono Donna” o “L’altra metà del cielo”.

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«Potrebbe capitare a chiunque»

«Potrebbe capitare a chiunque», ripetono le due operatrici. Perché la violenza di genere non ha categorie sociali o luoghi in cui evita di manifestarsi: «Trattiamo con ospiti italiane e straniere, provenienti da famiglie agiate o meno abbienti», spiega Gilardi. «Tante volte hanno subito violenza dal marito o dal compagno, a volte dal padre o più genericamente in ambiente familiare. Il maltrattamento fisico è quello più evidente, ma vi sono anche altre modalità con cui queste donne vengono “colpite”: dal permesso negato di uscire in certi orari alla mancata messa in regola dei documenti, oppure non vengono concessi i soldi per gli acquisti, fino a sminuire in toto il loro ruolo di donne e madri».

La vita in comunità

Una volta accolte in comunità, per le ospiti comincia un percorso non sempre facile. «Le donne vengono inserite nella gestione della casa: pulizie, cucina, turni…», dice Pozzi. «I primi tempi non sono semplici, poiché talvolta alcune hanno anche il divieto di uscire dalla struttura e devono cambiare numero di telefono per non essere rintracciate dal maltrattante. Alcune avvertono pure un senso di colpa per aver proceduto con una denuncia». Il rapporto coi figli, però, è uno dei punti cardine: «Spesso le capacità genitoriali di una donna vengono messe in dubbio dal compagno e diventano quindi occasione di violenza: troviamo così donne che non si sentono in grado di accudire e crescere i propri figli. Altre, invece, trovano la forza di scappare proprio per proteggere i bambini».

Il recupero della genitorialità

 

Gilardi aggiunge: «Il recupero della genitorialità passa anche dalla possibilità che una donna possa diventare madre autonoma. Reinserirsi nel mondo del lavoro come madre, specie single, è durissimo, ma è un enorme punto di lavoro». Resta sempre un’incognita, comune a tante vicende, quello della dipendenza affettiva: «Spesso la denuncia arriva dopo diverso tempo e in seguito ad un grande impegno, poiché una donna fatica a sganciarsi da una relazione: il grosso del lavoro è permettere a queste donne di pensarsi protagoniste delle proprie scelte».

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