Intervista a Giacomo Gatti, regista de "Il fattore umano"

Il primo appuntamento al Cenacolo francescano con “Ma che film la vita!”, la rassegna organizzata da Confcommercio Lecco e Parrocchia di San Nicolò con la partnership del Giornale di Lecco è stato dedicato ieri a «Il fattore umano – lo spirito del lavoro» di Giacomo Gatti

Intervista a Giacomo Gatti, regista de "Il fattore umano"
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Il primo appuntamento al Cenacolo francescano con “Ma che film la vita!”, la rassegna organizzata da Confcommercio Lecco e Parrocchia di San Nicolò con la partnership del Giornale di Lecco è stato dedicato ieri a «Il fattore umano – lo spirito del lavoro» di Giacomo Gatti, un docufilm che è un viaggio nel mondo del lavoro, dalla viticultura  trentina alle catene di montaggio: «Non un grande affresco dell’Italia che lavora – spiega il regista, 46 anni, milanese – ma il racconto di storie di uomini e donne che credono nella dignità del lavoro, che svolgono la propria attività con responsabilità e senso del dovere. Non ci sono mirabolanti movimenti della macchina da presa o effetti speciali, ma racconti autentici, in cui l’essere umano è al centro di imprese responsabili, diverse per storia, settore e territori».

"Il fattore umano"

Il film, presentato per la prima volta lo scorso 28 ottobre alla XIII festa del Cinema di Roma e poi tra  i protagonisti di Festival Glocal di Varese e del XXII Tertio Millennio Film Fest ha avuto un successo inatteso, persino per il suo talentuoso autore.

A cosa lo attribuisce? Al termine delle riprese che cosa rappresenta secondo lei il lavoro oggi?

«E’ vero, non ci aspettavamo tanta attenzione e successo: il tema del lavoro ora è al centro dell’azione politica, quando lo abbiamo presentato a Roma non era ancora così. Girando abbiamo raccontato storie che ci hanno sorpreso. Al di là della dimensione dell’imprenditorialità, abbiamo incontrato persone anche semplici che hanno la consapevolezza del valore di quello che fanno, di essere inseriti in un ciclo che raccoglie l’eredità di chi li ha preceduti e costruisce il futuro di chi li seguirà. Il lavoro è a mio avviso uno dei modi principali in cui dare forma alle proprie aspirazioni e costruire una comunità, fondare la società, soprattutto nel nostro Paese».

Giacomo Gatti, regista, docente e giornalista ha una lunga esperienza dietro la macchina da presa. Documentarista di chiara fama, ha diretto la docufiction «Michelangelo, il cuore e la pietra», solo per citare un titolo, e dal 2006 ha collaborato a tutti i documentari diretti dal maestro Ermanno Olmi.

Come nasce la sua passione per la settima arte?

«Dall’incontro in secondo media con il film horror di Dario Argento “Suspiria” – spiega sorridendo – Era proibitissimo all’epoca. E’ stata subito passione, per il film, per Dario Argento per i registi in qualche modo legati a lui Hitchcok e Sergio Leone. Ho girato alcuni corti e spot pubblicitari, poi c’è stata la collaborazione con il grande Olmi».

Fiction o documentari? Che cosa corrisponde di più alle sue scelte espressive?

«Dipende. Nel caso del fattore umano scegliere la fiction avrebbe tradito il messaggio. Ci sarebbe sembrato eticamente scorretto far interpretare ad attori storie che hanno il pregio dell’autenticità, soprattutto considerando che il progetto è nato dall’idea di rappresentare i 70 anni di Inaz e che poi è cresciuto sino a diventare “Il fattore Umano”. Ma in realtà io vedo che fiction e documentaristica perdono le loro definizioni accademiche per dar vita a produzioni che uniscono lei due dimensioni penso a “Sacro Gra” di Rosi, a “Diamante bianco” di  Herzog».

Prossimi progetti?

«Abbiamo concluso un documentario su Palladio, girato per metà negli usa,  sulle tracce dello stile neopalladiano e per metà sulle rive del Brenta, stiamo lavorando ad un progetto dedicato ad Annibale e pensando ad un capitolo secondo per “Il fattore umano»

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