Franco e Michele, giovani soldati al fronte per la Patria, caduti prigionieri lottarono per la vita
Franco Raffaldi e Michele Zucchi, quasi coetanei, entrambi arruolati a soli 19 anni per combattere nella seconda guerra mondiale, entrambi finiti come tanti altri soldati italiani nelle mani dei tedeschi dopo l’8 settembre. Il 2 Giugno hanno ricevuto la Medaglia d’onore e ora raccontano la loro storia.
Franco Raffaldi e Michele Zucchi, quasi coetanei, entrambi arruolati a soli 19 anni per combattere nella seconda guerra mondiale, entrambi finiti come tanti altri soldati italiani nelle mani dei tedeschi dopo l’8 settembre. Il 2 Giugno hanno ricevuto la Medaglia d’onore e ora raccontano la loro storia.
Franco Raffaldi: «Speravo di tornare a casa e ci sono riuscito»
Franco Raffaldi, classe 1924, è uno dei tre reduci che ha ritirato personalmente la Medaglia d’Onore alla cerimonia del 2 giugno. «Lo stato italiano ci ha messo 75 anni per riconoscere il nostro sacrificio da internati militari italiani», commenta Franco. Ma l’oggetto più importante, per lui, resta il cappello da alpino che riporta ancora la scritta del ‘43 «Mamma ritornerò» e la targhetta del lager: «Quando qualcuno moriva una parte restava alla salma e una veniva spedita a casa. La mia è rimasta integra». Chiamato alle armi, viene assegnato al «Battaglione Morbegno» degli Alpini: i tedeschi catturano tutto il gruppo a San Candido, in provincia di Bolzano. C’è stato l’armistizio ma Franco è all’oscuro di tutto: «Da lì inizia la mia prigionia, viaggiamo su treni verso Dresda, in Sassonia, sempre sotto tiro. Arrivati nel lager iniziamo a lavorare in una fabbrica che produceva aeroplani: veniamo rasati, visitati ed esaminati, trattati come “materiale umano”. Lavoravamo dodici ore al giorno, dormivamo pochissimo e la fame era tanta.
Eravamo in circa cinquemila tra italiani e deportati polacchi e ucraini: avevamo diritto a tre patate lesse al giorno e ad una zuppa di rape alla sera. In primavera strappavamo l’insalata selvatica che cresceva nei campi per mangiarla». Ogni giorno, gli alleati e i russi avanzano per stringere la Germania in una morsa e Franco si ritrova sotto le bombe nemiche senza potersi difendere: «Non c’erano rifugi, potevamo solo sperare. Nel febbraio del ‘44 gli americani bombardarono per un giorno e una notte uccidendo 40mila civili». I mesi passano e nell’aprile del ‘45 Raffaldi assiste alla disperata ritirata tedesca e viene liberato dagli alleati che, però, tardano il rimpatrio. Insieme ad un gruppo di alpini riesce a recuperare un mezzo di trasporto e dei documenti: supera diversi posti di blocco e finalmente arriva ad Innsbruck, poi a Bolzano in treno: qui il caso vuole che ci sia un camion di una ditta di Mandello che lo scorta fino a Milano e da qui, l’ultima tappa in treno. «Era fine maggio, sono stato tra i primi a ritornare, avevo ancora le chiavi di casa nello zaino che ero riuscito a salvare diverse volte dalle macerie. Pensavo “Se torno a casa di notte non voglio svegliare i miei genitori”. La nostalgia era tanta ma nonostante fossi lontano tanti chilometri il mio paese era sempre con me: in fondo al letto avevo appeso una cartolina di Mandello e mi addormentavo e mi svegliavo ogni giorno guardando il mio lago e la mia casa. Speravo di tornarci e ci sono riuscito».
Michele Zucchi: «Sono sopravvissuto sette volte a morte certa»
Domenica 2 giugno Michele Zucchi ha ricevuto la Medaglia d’Onore, a seguito delle drammatiche vicende vissute durante la Seconda Guerra Mondiale. Classe 1923, premiato con due Croci al Merito dal sindaco Riccardo Fasoli, ha raccontato in un documentario la sua storia. E’ riuscito a sopravvivere a morte certa in più di un frangente. Sono passati più di settant’anni e i luoghi in questione sono distanti migliaia di chilometri, ma quando Michele chiude gli occhi e inizia a raccontare pare di essere lì, accanto a lui, a condividere le stesse paure, le privazioni, il dolore, la fame e la morte provati negli anni lontano da casa. Partì da Mandello il 5 settembre del 1942 e fu assegnato alla «Divisione Acqui» sull’isola di Cefalonia e lì ricevette la notizia dell’armistizio, con il quale il governo italiano ribaltò l’alleanza con la Germania. «Il tenente Pigorini disse “Chi si sente fascista resti a combattere per i tedeschi, tutti gli altri si disarmino” – racconta Zucchi – E in 73 deponemmo le armi». Da quel momento la vita di Michele sarà in balìa del destino. Rimasto fedele ai suoi principi, fu trattato da prigioniero: «Ci portarono a Lixouri, passai due giorni a tremare e a dormire sotto “l’albergo delle stelle”, fino a quando ci misero tutti contro al muro, pronti alla fucilazione.
Fu questione di un attimo, fummo graziati solo perché un altro ufficiale tedesco intervenne e ci utilizzarono come merce di scambio. Tornai così ad Argostoli sempre difendendo il reparto munizioni e viveri per non far cadere le armi nelle mani del nemico. La guerra tra esercito italiano e tedesco era iniziata». Nei vari spostamenti sull’isola, Michele osserva scene terribili: i tanti corpi di soldati morti negli scontri e lasciati nudi, beccati dai corvi, ed assiste alla sorte toccata al centinaio di ufficiali italiani tenuti prigionieri nella cosiddetta «casa rossa» di Capo San Teodoro e poi trucidati. Giunto al porto, si ritrova tra i 1300 uomini imbarcati per fare ritorno a casa ma la nave, colpita appositamente dai tedeschi, affonda e il racconto di quella notte è davvero drammatico: «Nuotavo, ma avevo mal di pancia perché avevo mangiato troppo pane, fatto con mangime dei cavalli e segatura, e avevo freddo. Tuttavia sono riuscito insieme ad altri a farmi caricare su un’altra imbarcazione. Ero come uno straccio bagnato, non avevo un grammo di forze: ho pianto tanto, perché la nave poi è ripartita e ha lasciato in mare circa 500 uomini ancora vivi che chiedevano aiuto». Zucchi raggiunge il Pireo e poi Atene dove viene lasciato otto giorni senza cibo né acqua: da quel momento iniziano i mesi al servizio dei tedeschi sul fronte russo picconando il ghiaccio delle strade, senza calze, a 30 gradi sottozero. Michele sopravvive in Polonia, fatto sette volte prigioniero a fasi alterne da Russi e Tedeschi: viene sfiorato da una bomba che rimane inesplosa e ancora una volta è salvato in extremis di fronte al muro della fucilazione. Liberato il 9 marzo ‘45 e affidato agli americani a Danzica, Michele fa rientro a Mandello con il compaesano Gianni Pini. Sulle spalle ha il cappotto regalatogli da un ufficiale russo, è il 3 ottobre 1945: «Il giorno più bello della mia vita. Una ragazza mi è corsa incontro e mi ha detto che la mia famiglia stava bene», racconta con gli occhi lucidi e un sospiro. L’emozione riaffiora ogni volta inesorabile, i ricordi sono intensi e nitidi, scolpiti da sempre nella sua mente e nel suo cuore.
Barbara Pirovano