"Salvare le persone in mare per salvarci dal naufragio dei diritti". La testimonianza di Yusuphe
Dal Gambia all'Italia, attraverso il deserto e l'inferno libico, fino al salvataggio nel Mediterraneo grazie alla nave di una Ong

Non si tratta di schierarsi a destra o a sinistra, politicamente parlando: si tratta di scegliere tra salvare una persona che sta per morire in mare o non salvarla. Questo è il punto; un dilemma che non si pone, o meglio non dovrebbe porsi, perchè salvare le persone che rischiano di annegare in mare è un dovere, proprio come lo è soccorrere una persona rimasta coinvolta in un incidente stradale (se non si interviene si viene accusati di omissione di soccorso). Dunque, "le Ong semplicemente suppliscono il compito che le autorità preposte dovrebbero effettuare: salvare le persone in mare. Perchè non si tratta di migranti: si tratta di persone naufraghe, e solo dopo - e preso atto di questi termini - si può asserire che siano migranti".

"Salvare le persone in mare per salvarci dal naufragio dei diritti". La testimonianza di Yusuphe
Una serata, quella di ieri, martedì 3 giugno 2025, alla Casa della Carità di Lecco, promossa dall’Equipaggio di terra di Resq del Centro Farmaceutico Missionario di Valmadrera e dalla Caritas Ambrosiana, che si proponeva come un momento di dialogo e di confronto, e che ha visto il fulcro nella testimonianza di Yusuphe, ragazzo proveniente dal Gambia, che ha raccontato le innumerevoli prove - nel corso delle quali in gioco non c’era solo un futuro migliore, ma la vita stessa - che ha dovuto affrontare per arrivare in Italia.
"Sono partito dal mio Paese con l’idea di andare in un posto in cui potessi stare meglio, come tutti quelli che partono - racconta Yusuphe - Dal mio Paese non puoi sapere cosa succede in Libia finché non ci arrivi, poi capisci che non è un posto dove puoi restare. Io sono partito con l’idea di andare in Libia; pensavo: c’è stata la guerra, quindi devono ricostruire le case e questo significa lavoro stabile, ma poi si scopre che non è così.
Quando sono partito dal Gambia sono andato in Senegal, poi in Mali, in Burkina Faso e in Niger. Qui eravamo 15 persone: ci siamo trovati per strada e abbiamo viaggiato insieme. Arrivati in Niger abbiamo sentito che in Libia si poteva trovare lavoro stabile".

Purtroppo, già in Niger il gruppo è finito nella rete dei trafficanti: "Abbiamo parlato con un camionista che trasportava merci dal Niger alla Libia e gli abbiamo chiesto un passaggio - prosegue il racconto - Ci ha detto: 'Ok, ma dovete aiutarmi a caricare il camion'. Abbiamo caricato il camion tutto il giorno sotto il sole, poi siamo partiti verso le sei e mezzo di sera, ma lui non ci ha detto quanto tempo avremmo impiegato per andare dal Niger alla Libia: in mezzo, infatti, c’è il deserto. Noi avevamo preso qualcosa da mangiare pensando che il giorno dopo saremmo arrivati in Libia, e invece siamo rimasti nel deserto per una settimana; il camionista guidava per un’ora, si fermava e poi quando voleva ripartiva, noi così abbiamo finito tutto il cibo che avevamo: è stata dura, quando siamo arrivati alla frontiera tra Libia e Niger il camionista ci ha dato dell'acqua che aveva messo nelle taniche di carburante, così abbiamo bevuto quella ma era mischiata con la benzina. Al confine ci ha fatto scendere: c'erano i militari che ci hanno messo in fila e hanno iniziato a picchiarci tutti; non dovevi muoverti, perchè se no voleva dire che non ti avevano fatto abbastanza male: bisognava stare fermi e sopportare per farli smettere. Ci hanno caricato tutti su un pick up, eravamo strettissimi, per andare al primo paese che si incontra varcato il confine della Libia. Eravamo già 'in commercio' (nelle mani dei trafficanti, ndr) ma non lo sapevamo. Abbiamo scoperto che avevamo un debito con loro senza saperlo: così, dato che non potevamo pagare, ci hanno portato subito tutti in prigione e ci hanno chiesto il numero dei nostri parenti, dicendo loro che avrebbero dovuto pagare tutti i soldi, altrimenti ci avrebbero ammazzato. I trafficanti sono quelli, non quelli che guidano i barconi: i trafficanti non andranno mai in Italia, non ne hanno bisogno perchè hanno un sacco di soldi. Hanno chiamato mio fratello chiedendo 15 mila euro, ma io sapevo che non li aveva, e in quel momento ho pensato: 'Sono finito'. Una volta arrivato in Libia non puoi tornare indietro, perchè tra Niger e Libia c'è il deserto e, mentre lo attraversi, vedi le persone morte per strada: se vuoi tornare indietro i trafficanti ti lasciano in mezzo al deserto. E' arrivato un ragazzo del Gambia che ha pagato il nostro debito, ci ha portato a casa sua ma a sua volta ha aumentato il debito: noi dovevamo pagare ancora di più. Ci ha chiuso dentro e siamo rimasti lì 15 giorni. Ero con un ragazzo minorenne, facevamo i turni per uscire e cercare da mangiare, quel giorno toccava a lui: in Libia i ragazzi girano per strada con coltelli, fucili, qualsiasi arma... e lo hanno accoltellato per niente; è arrivato da me sanguinante ma alla fine non ce l’ha fatta. E' difficile per me raccontare questi episodi perchè devo ricordare il passato, ma lo faccio per sensibilizzare. Quando quel ragazzo è morto ho pensato solo una cosa: quel ragazzo ha lasciato la sua famiglia e non tornerà mai più, quando l’abbiamo detto a sua mamma era disperata, perchè non poteva neanche avere il corpo di suo figlio. Ma una volta lì devi andare avanti: non puoi fermarti, se no rischi di fare la fine di quel ragazzo. Così sono andato a Tripoli, la capitale della Libia; li c’è un posto dove ogni mattina si andava a cercare lavoro, ma invece ci hanno portato in prigione; quando sono uscito dalla prigione sono andato a lavorare da un signore per sei mesi senza pagamento (stava costruendo casa e aveva bisogno di manodopera); avevamo creato un legame, andavamo in moschea insieme e ci ha detto che un suo amico portava le persone in Italia. Io sono stato fortunato. Ai trafficanti non frega niente se il mare sia calmo o agitato, tanto tu paghi. Sono partito a dicembre e ho visto le persone che piangevano per non entrare nei barconi, perchè il mare era agitato con onde altissime, ma dietro ci sono i trafficanti con i fucili: se non sali ti ammazzano, perchè loro perdono il guadagno. I trafficanti hanno il loro gommone; ti accompagnano per un tratto in modo da evitare le guardie costiere libiche, ti danno un walkie talkie e ti dicono: 'Guida tre o quattro ore sempre dritto e poi chiama questo numero: la guardia costiera italiana verrà a prenderti'. Insegnano a guidare la barca a qualcuno dei migranti; chiedono: 'Sei coraggioso? Allora ti insegno a guidare la barca' e il pagamento di quella persona è questo. Quindi quelli che arrivano in Italia alla guida dei barconi non sono scafisti, sono migranti 'normali'. Gli scafisti quindi ci hanno accompagnato - erano le 2 di notte quando siamo partiti - per un'oretta, poi si sono fermati. Io ero in fondo alla barca, dove c’era il motore, ero l'ultimo saluto a bordo, dovevo cambiare la benzina. Siamo rimasti in mare per tre giorni perchè il motore era rotto; avevamo sete, ancora adesso di notte ho paura del mare, mi veniva da vomitare. Il lavoro straordinario delle Ong sta anche nel fatto che lanciano bottiglie di acqua appena vedono una barca: erano tre giorni che non bevevo. Quando ti salvano la prima paura è quella di tornare indietro: non sai cosa fanno le Ong, e sai che se torni indietro vai all’inferno, non in Libia: ho visto in prigione tanti morire così. Non riuscirò mai a raccontare tutto quello che ho vissuto, cerco di raccontare qualcosa per sensibilizzare sul lavoro delle Ong perchè salvano tantissime persone. Solo quando sei in salvo sulla loro barca ti senti rinato, perchè d'un tratto ti rendi conto di quello che hai passato". Yusyphe da Lampedusa è quindi arrivato a Milano, poi a Lecco e ora vive a Valmadrera; è sposato e ha due figli e lavora come artigiano metalmeccanico; ha fatto i corsi di lingua e preso la licenza di terza media, oltre ad un corso di disegno meccanico. E' diventato cittadino italiano. "Ringrazio l’Italia perchè non è stato un percorso facile, ma ho sempre trovato persone che mi hanno aiutato", conclude. La cosa certa è che, se quella nave di una Ong di cui Yusuphe non ricorda il nome non fosse arrivata, lui sarebbe certamente morto.
"Resq è nata per un atto di follia - racconta il giornalista e attuale presidente di ResQ, Luciano Scalettari - Nel 2019, 18 persone capitanate dagli ex magistrati Gherardo Colombo e Armando Spataro hanno fondato Resq people saving people, persone che salvano persone; un'espressione che si può leggere sia da sinistra verso destra che da destra verso sinistra: noi facciamo cose per soccorrere altre persone, ma al contempo con questa attività siamo salvati dal naufragio dei diritti. Quando abbiamo iniziato eravamo senza un euro, l’obiettivo dell’associazione era quello di comprare una nave e soccorrere le persone naufraghe migranti. Noi non ci occupiamo di immigrazioni, di fare integrazione o accoglienza: noi ci siamo costituiti perchè negli ultimi 10 anni nel Mediterraneo sono morti, accertati, 32 mila essere umani, e questo è inaccettabile. Io come giornalista mi occupavo di immigrazione e non riuscivo più ad accettare questo fatto: non era più sufficiente firmare appelli e essere addolorati di fronte alla notizia del Tg; bisognava fare qualcosa di più".

Le Ong sono spesso oggetto di pregiudizi: "Si dice che prendiamo i soldi da chissà chi (magari, abbiamo un sacco di debiti...), che, dato che noi siamo lì allora le barche partono, tralasciando il fatto che gran parte di queste persone non possono scegliere perché a decidere quando far partire i barconi sono gli scafisti. Tutte le affermazioni contro di noi sono riconducibili ad un atteggiamento razzista; spesso mi chiedono 'perchè partono senza visto?', ma un visto per l’Italia è praticamente impossibile da ottenere da gran parte degli stati africani e dai Paesi poveri. A tutte queste obiezioni noi rispondiamo: 'Ok, quindi?', 'Quindi, nel momento in cui le persone sono in mezzo al mare?', o li salvi o non li salvi: questa è la grande questione, dobbiamo decidere da che parte stare: possiamo darci tutti gli alibi che vogliamo, ma per noi il punto è uno solo: o queste persone sono esseri umani o non lo sono. Se decidiamo che non lo sono o che lo sono un po' di meno va bene, lasciamoli morire in mare. Se lo sono dobbiamo decidere da che parte stare. Per noi ogni essere umano è indispensabile, conta, senza se e senza ma, non possiamo transigere: se cominciamo a fare eccezioni allora si approda ad una gerarchia di chi merita e chi non merita. Io vorrei vivere in una società - peraltro ben delineata dalla nostra Costituzione - in cui ogni cittadino dovrebbe avere dei diritti, e il diritto di emigrare è un diritto fondamentale; anche se ormai bisogna dirlo a voce bassa…".

"Oggi iniziamo ad accettare il migrante ambientale, ma il migrante economico diventa un tabù. Forse, più che definirli migranti, dovremmo chiamarle persone, in questo modo risponderemmo alla domanda 'Da che parte stai?' in un altro modo", ha ribadito Fabio Agostoni, membro del direttivo di Resq e dell'equipaggio di terra del Centro Farmaceutico Missionario di Valmadrera. "Il problema - prosegue Agostoni - è che noi italiani abbiamo la memoria molto corta: basta digitare su google 'Operazione Mare Nostrum' per accorgersi che esisteva un tempo in cui il governo italiano aveva messo in campo la guardia costiera per il salvataggio dei migranti. Poi l’Europa ha negoziato con la Turchia, bloccando i migranti siriani che scappavano da una guerra, le Ong sono state chiamate taxi del mare e pull factor. Non è vero che il soccorso in mare è divisivo: soccorrere una persona in pericolo non divide tra destra e sinistra, l'hanno fatta diventare una questione divisiva perchè si vogliono respingere i migranti. La verità è che soccorrere le persone in pericolo è un dovere morale, ma anche legislativo: stiamo perdendo non solo pezzi di umanità, ma pezzi di diritto".

Al momento, ResQ conta oltre 15 mila finanziatori, di cui la chiesa cattolica è il principale. La Ong vive solo di donazioni - o meglio - "sopravvive", sottolinea Fabio, considerando che i costi si aggirano intorno ad un milione all’anno. A fine serata si è aperto un confronto sul tema, proseguito con una tazza di tisana di fronte alla mostra, allestita sempre alla Casa della Carità di Lecco, con gli scatti delle operazioni di salvataggio di ResQ.




