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Quattro anni fa il primo caso di Coronavirus a Lecco, Stasi: "Non dobbiamo rimuovere la memoria del Covid"

Per non dimenticare quei mesi terribili, abbiamo chiesto a Beatrice Stasi di ripercorrere per i nostri lettori l’esperienza che ha vissuto come direttore generale dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, città che fu al centro della pandemia.

Quattro anni fa il primo caso di Coronavirus a Lecco, Stasi: "Non dobbiamo rimuovere la memoria del Covid"
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Era la mattina del 26 febbraio del 2020 quando Lecco si risvegliava con la consapevolezza che il virus era arrivato a "colpire" anche nella nostra provincia. Si perchè esattamente quattro  anni fa venne ufficializzato il primo caso di Covid nel Lecchese. A risultare positivo   un 30enne residente a Cassago Brianza che si trovava ricoverato  dal giorno precedente nel reparto di Malattie Infettive dell'ospedale di  Leccola stessa struttura che dalla domenica precedente  domenica  ospitava  un 17enne valtellinese che era stato contagiato da Coronavirus.

Quattro anni fa il primo caso di Coronavirus a Lecco

Per non dimenticare quei mesi terribili, abbiamo chiesto a Beatrice Stasi di ripercorrere per i nostri lettori l’esperienza che ha vissuto come direttore generale dell’Asst Papa Giovanni XXIII di Bergamo, città che fu al centro della pandemia. Un incarico che ha lasciato alla fine dello scorso anno con il pensionamento. Beatrice Stasi è originaria di Mandello e abita a Calolziocorte fin dal 1984 anno del matrimonio con il calolziese Roberto; ha un figlio, Riccardo, ingegnere, che vive in California con la moglie Irene e i due bimbi Celeste e Giacomo. Ha lavorato per 43 anni nella sanità partendo dal primo gradino dei laureati amministrativi, ovvero quello di collaboratore amministrativo occupandosi di un ampio spettro di attività, dalle cure primarie al controllo di gestione, dall’accreditamento delle strutture sanitarie e sociosanitarie alle attività in staff alla direzione strategica. Dopo due anni alla Usl di Merate, è stata dal 1994 al 2009 a quella di Lecco e quindi, prima dell’approvo in Valle, dal 2009 al 2011 alla Asl di Milano come direttore del Controllo di Gestione. Quindi è stata per molti anni in Valtellina, inizialmente come direttore amministrativo dell’Aovv dal 2011 al 2013. Quindi, sempre nella stessa azienda, aveva ricoperto l’incarico di commissario straordinario e poi di direttore generale fino al 2015. Dal 2016 al 2018 è stata direttore generale dell’Ats della Montagna prima di approdare al Papa Giovanni di Bergamo nel 2019.

Stasi: "Non dobbiamo rimuovere la memoria del Covid"

Sono ormai passati quattro anni dalla prima ondata pandemica Covid-19 che resterà - incancellabile - tra le esperienze più dolorose e faticose che ho vissuto nella mia vita umana e professionale.
Penso che questo mio sentimento accomuni tutti i professionisti, medici, infermieri e operatori dell’Asst Papa Giovanni XXIII che tornino con la mente a quelle interminabili giornate di febbraio, marzo, fino ad aprile 2020 quando la curva dei contagi ha iniziato finalmente a scendere, anche se molto lentamente, tanto che solo a luglio abbiamo potuto dichiarare «Covid free» la terapia intensiva. Sarebbero seguite altre quattro ondate.
Vista da Bergamo, la pandemia ha assunto i contorni di un dramma incombente e di una corsa contro il tempo per far fronte a emergenze gigantesche e a getto continuo.

In quelle terribili settimane il numero di contagi nella sola provincia di Bergamo era da tre a cinque volte quello di intere grandi regioni come il Lazio, la Campania, la Puglia. Eppure all’inizio fu difficoltoso far capire che cosa stava succedendo così rapidamente nella nostra Asst. In pochi giorni i posti letto delle malattie infettive si riempirono, seguiti a ruota dai posti letto di terapia intensiva. Il Pronto Soccorso era preso d’assalto e piano piano sia il grande ospedale Papa Giovanni che il piccolo ospedale di San Giovanni Bianco, afferente alla nostra Asst, si riempivano all’inverosimile di casi Covid.
Nonostante questo curavamo infarti, ictus, venivano effettuati trapianti, nascevano bambini. Facevamo una o due riunioni al giorno dell’Unità di Crisi, istituita all’emergere dei primi casi. Tutta l’organizzazione era impegnata a trasformare reparti in reparti Covid, a cercare letti in altre strutture per far posto ai nuovi contagi, a distribuire i dispositivi di protezione, a cercare di sostituire il personale che si ammalava. Ricordo una grande fatica e talvolta la paura di non farcela.
Da molte latitudini dall’Italia e del mondo venivamo chiamati per sapere che cosa stava succedendo e che cosa stavamo facendo per affrontare, tra i primi in occidente, la pandemia. Abbiamo fatto tanta ricerca sul Covid, contribuendo a far conoscere di più un virus fin lì sconosciuto alla comunità scientifica. Ma anche molta gente comune ci è stata accanto, ricordo un messaggio dall’Irlanda in cui ci ringraziavano per aver avuto qualche giorno di tempo per prepararsi.
Un virus sconosciuto, il Covid-19, si è abbattuto sul territorio bergamasco con una forza senza pari. In quei giorni non sapevamo come si sarebbe evoluta la pandemia. I timori di essere sopraffatti erano palpabili e terribili. Abbiamo realizzato insieme ciò che solo qualche giorno prima sarebbe stato impensabile. Ogni giorno eravamo alla ricerca di dispositivi di protezione per medici e infermieri, di letti in altre province o in altre strutture dove collocare i pazienti trasferibili per fare posto ai pazienti più gravi che ogni minuto arrivavano con le ambulanze. In poche ore ci siamo ritrovati a dover allestire una nuova centrale per l’ossigeno per le centinaia di pazienti che affollavano l’ospedale Papa Giovanni di Bergamo per timore che collassasse l’impianto esistente.

Considero quel periodo, in particolare la prima ondata di febbraio-marzo 2020, come «la madre di tutte le esperienze». Il timore di non farcela, la ricerca spasmodica di letti, di dispositivi di protezione, di personale… Molti di noi si sono ammalati. Io stessa ho diretto il Papa Giovanni per diversi giorni dalla mia casa di Calolziocorte, isolata perché contagiata tra i primi con il prefetto e il questore di Bergamo. A marzo 2020 anche il direttore sanitario e il direttore sociosanitario sono risultati positivi al Covid, solo il direttore amministrativo era in sede fisicamente; ricordo le call interminabili con l’Unità di Crisi del Papa Giovanni per trovare una soluzione a tutti i problemi che si presentavano di ora in ora, con la paura che accompagnava quelli tra noi contagiati a fronte di sintomi sconosciuti di incerta evoluzione e dei dati di pericolosità del virus che provenivano dagli ospedali. E come dimenticare il coraggio e la dedizione di chi lavorava nei reparti e si isolava dai familiari?
Eppure in quei momenti così difficili abbiamo avuto la vicinanza di molti, dall’Italia e dal mondo. Grande la vicinanza, la solidarietà, l’affetto che abbiamo sentito e che ci ha sostenuto. Oggi la reputazione della Asst Papa Giovanni è un patrimonio ancora più grande anche grazie all’esperienza che abbiamo vissuto e che si è snodata per ben cinque ondate, (nelle quali abbiamo curato oltre 7mila pazienti covid), alla campagna vaccinale con 650mila vaccini realizzati e alla gestione dell’ospedale alla Fiera di Bergamo, allestito da Alpini e artigiani, che Regione Lombardia ha affidato alla gestione del Papa Giovanni per ben 16 mesi.
In seguito a quell’esperienza così drammatica, alcuni tra i professionisti del Papa Giovanni hanno sentito il bisogno di esprimersi, in uno sforzo quasi terapeutico per lenire il dolore, attraverso modalità inconsuete.
C’è chi l’ha fatto scrivendo un libro per raccontare la propria esperienza. Chi ha scritto versi nei giorni più difficili diventati poi una raccolta. Altri ancora hanno messo in scena, da attori protagonisti, un’opera teatrale per raccontare ciò che i loro occhi hanno visto, ciò che le loro orecchie hanno udito. Ognuno ha scelto la propria strada per rielaborare e superare emozioni e stati d’animo, per riordinare i pensieri e ridefinire le priorità, umane prima ancora che professionali.
Il mio mandato al Papa Giovanni è iniziato nel gennaio 2019 e, mio malgrado, sono stata testimone «privilegiata» di un dramma così grande che in nessuna scuola di management si può imparare ad affrontare. Eppure oggi, a distanza di un tempo così limitato, si assiste a una sorta di rimozione collettiva di ciò che è stato, davvero incomprensibile per molti di noi. In quei terribili giorni nella Asst Papa Giovanni si è espressa una immensa voglia di lottare, un estremo senso di amore per il prossimo, una solida fiducia nella scienza e nelle capacità dell’uomo di uscire collettivamente dalle situazioni più difficili.
Perché a fare la differenza in quelle terribili giornate è stato proprio la tenacia nel mettere in campo uno sforzo corale, fatto di coesione, di solidarietà, di impegno e di comunità di intenti. E’ stato questo, insieme alle tante competenze professionali, ad averci permesso di stare accanto ai nostri pazienti, di restituirne moltissimi alle loro vite e ai loro affetti, ad aver moltiplicato le nostre forze per cercare di stare «un’ora avanti al virus».

 

coronavirus
Quello che è accaduto in quei giorni nei nostri ospedali di Bergamo e San Giovanni Bianco, è valso alla Asst Papa Giovanni enorme solidarietà e rispetto, da ogni remoto angolo del mondo. In quei giorni ci fu una gara per esprimere vicinanza concreta ai nostri ospedali; cito solo la commozione che ho provato quando, dopo la messa «solitaria» di Pasqua nella chiesa dell’ospedale Papa Giovanni, in piena prima ondata, presenti solo il vescovo di Bergamo, il suo segretario, il nostro direttore sanitario e io, con la messa trasmessa alla comunità solo in Tv. Scaricammo insieme dall’auto del vescovo le mascherine donate direttamente dal Santo Padre, e dal piazzale deserto dell’ospedale chiamammo insieme l’elemosiniere del Papa per ringraziare. Tanti i gesti di generosità di molti che ci hanno riferito di aver avuto in quelle giornate proprio i medici, gli infermieri e il personale sanitario come uno dei pochi saldi riferimenti, in un mondo che ha visto di colpo cadere molte certezze, una dopo l’altra. In questo senso tutti i nostri operatori hanno scritto una pagina direi quasi «eroica» di sanità pubblica, in grado di rappresentare al meglio i principi e i valori della nostra comunità.
Ora tutto ciò va recuperato e salvaguardato, rimuovere dalla memoria collettiva ciò che è accaduto può avere effetti paradossali. La lezione del Covid è che la sanità non è «spesa pubblica» ma un grande investimento per il futuro. La crisi «vocazionale» e motivazionale che oggi riguarda molte professioni sanitarie può essere rimossa solo con una grande azione di riconoscimento collettivo ad ogni livello, reputazionale, economico e sociale, verso persone che, confidando soprattutto sulle proprie forze, hanno «svangato» la peggior pandemia del secolo. E scusate se è poco.

Beatrice Stasi

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