In un momento storico segnato da profonde incertezze economiche, instabilità geopolitiche e cambiamenti generazionali, il mondo della manifattura italiana si trova a fare i conti con una trasformazione che non è solo produttiva, ma anche culturale e sociale. Le imprese, soprattutto quelle radicate nei territori, si interrogano sul proprio futuro e sul ruolo che i giovani potranno (e dovranno) ricoprire nei prossimi decenni. Ne abbiamo parlato con Angelo Cortesi, fondatore e amministratore di Co.El. di Torre de’ Busi, azienda specializzata nella produzione di molle e componenti elastici. Cortesi è un imprenditore che da anni porta avanti il concetto di impresa etica, e che ha scelto di confrontarsi direttamente con le nuove generazioni, entrando nelle scuole e nei luoghi della formazione per raccontare cosa significa fare impresa oggi.
Signor Cortesi, parliamo dei giovani: che impressione ha della loro visione del futuro?
«Mi capita di incontrarli spesso nelle scuole del lecchese, dove vengo invitato sia per fare formazione tecnica – essendo presidente del Comitato tecnico di Anccem, l’associazione dei mollifici italiani – sia per raccontare la mia esperienza imprenditoriale. Quello che noto è che si parla tanto di futuro, ma spesso non si sa cosa significhi davvero. È una parola che usano, ma non lo costruiscono. Eppure tra vent’anni saranno loro a guidare la società. Non possiamo continuare a dire che sono fragili: dobbiamo dar loro responsabilità. Non è colpa loro, ma la situazione va denunciata. Naturalmente il mio è un discorso generale: ho trovato diversi ragazzi con la testa sulle spalle, ma sono pochi».
Quali sono le difficoltà principali che riscontra nel dialogo con le nuove generazioni?
«Hanno in mente i diritti, ma non conoscono i doveri. Non sanno cosa significhi la parola «lungimiranza», né sono consapevoli delle problematiche che stiamo affrontando: inquinamento, sostenibilità economica, sociale e ambientale. Quando parlo di impresa, spesso la vedono come un animale feroce, avido e predatorio. Rimangono sbalorditi quando presento un modello d’impresa basato sui valori positivi e sulla coerenza tra principi e azioni. Questo li spiazza, ma allo stesso tempo li incuriosisce. Capiscono che esiste un modo diverso di fare impresa, più responsabile e orientato al bene comune».
E il concetto di lavoro? Come lo percepiscono?
«Il lavoro è un valore, e quando pronuncio queste parole i ragazzi rimangono basiti. Purtroppo oggi, spesso, è visto solo come stipendio o opportunità. Davanti ai soldi non si fanno valutazioni. Questo ha cambiato radicalmente il modo in cui i giovani si rapportano al lavoro, e le aziende faticano ad assumere. Il nostro Paese è fondato sul lavoro, intendendolo come un momento di crescita, nel quale ci possiamo realizzare e che ci aiuta a diventare uomini e donne: tuttavia questo principio sembra smarrito. Oggi il lavoro è percepito come qualcosa da pretendere, non da costruire. E questo è un problema culturale profondo».
Quanto incide il legame con il territorio nella visione dei giovani e nel futuro dell’impresa?
«E’ un aspetto che spesso viene sottovalutato, ma è cruciale. Un tempo il territorio era parte integrante dell’identità professionale e personale: i distretti industriali, le reti tra imprese, persino le famiglie erano radicate in un tessuto produttivo che dava forma alle persone. Oggi questo senso di appartenenza si è indebolito. I giovani faticano a riconoscere il valore del luogo in cui vivono, forse perché la globalizzazione ha reso tutto più fluido e distante. Ma senza un legame con il territorio, anche l’impresa perde radici e prospettiva».
Qual è la situazione attuale per gli imprenditori nel settore manifatturiero?
«E’ molto difficile. In molti casi i fatturati sono peggiorati, il sistema non sta funzionando come dovrebbe. Viviamo un lungo periodo di incertezza che dura da tre anni, più grave della crisi del 2008. Le guerre, le tensioni internazionali, le leggi vessatorie, le nuove incombenze circa la sicurezza sul lavoro che hanno colpito tutti, senza discriminare tra aziende da penalizzare e aziende virtuose, ci oberano di impegni. Di conseguenza sempre meno persone vogliono fare l’imprenditore. Molti scelgono di vendere, è un dato di fatto. Gli oneri sono sempre maggiori, e spesso le normative non premiano chi lavora bene, chi investe nella sicurezza, chi cerca di fare impresa in modo sostenibile».
Cosa pensa del ricambio generazionale nelle imprese?
«E’ un problema enorme. Nel lecchese ci sono tante aziende ferme a 30-40 anni fa, con impianti obsoleti. Molte stanno chiudendo e negli ultimi 3-4 anni i dati parlano chiaro. L’Italia è ultima in Europa per indice di imprenditorialità. E questo è un segnale preoccupante. Il ricambio generazionale non c’è, e quando manca, l’impresa muore. Bisogna intervenire, ma serve una visione politica e culturale che oggi non vedo».
Ha visto progetti promettenti tra i giovani?
«Sì, al Festival Nazionale dell’Economia Civile di Firenze ho visto start-up con business plan davvero straordinari. Sognano in grande, ma con i piedi per terra. Questo è incoraggiante. Alcuni progetti erano davvero ben strutturati, con una visione chiara e una forte attenzione alla sostenibilità. E’ la dimostrazione che, se messi nelle condizioni giuste, i giovani possono fare molto».
Cosa si può fare per avvicinare i giovani al mondo dell’impresa?
«Bisogna alleggerire gli oneri alle aziende e portare l’impresa nelle scuole, come fa Confapi. Far conoscere il mondo del lavoro, confrontarsi con una cultura diversa. I ragazzi reagiscono, discutono, si mettono in gioco. Capiscono che il mondo che hanno in testa non è quello reale. C’è un modo diverso di concepire l’azienda, il profitto, il lavoro. E questo li fa riflettere. Quando si crea un dialogo vero, le risposte arrivano. E spesso sorprendono».
C’è ancora qualcuno che sogna di fare impresa?
«Recentemente, dopo una lezione sull’impresa, due ragazzi, saltando l’intervallo, si sono avvicinati dicendomi «vorrei diventare imprenditore», e questo mi ha colpito parecchio. È un momento difficile per partire, soprattutto nell’industria meccanica: li ho messi di fronte alla situazione, ma se si ha un’idea, è giusto farlo, mettersi in gioco e provarci con tutte le proprie energie. Serve coraggio, ma anche consapevolezza. E se c’è la volontà, bisogna sostenerla».