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Tra Ferrari, Senna e la Gazzetta: Pino Allievi, l’uomo che scrisse la Formula 1

Nel silenzio della sua casa a Dervio, Pino Allievi ripercorre una vita tra motori, giornalismo e grandi protagonisti della Formula 1.

Tra Ferrari, Senna e la Gazzetta: Pino Allievi, l’uomo che scrisse la Formula 1
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Ci accoglie nella sua casa di Dervio Pino Allievi, storico cronista della Gazzetta dello Sport al seguito del circus della Formula 1. Nonostante i mille aneddoti e conoscenze, nella sua casa abitazione laghee non vi sono ricordi di quegli anni. Una scelta che il classe 1947 motiva così: «Non ho cimeli. Non sono un fanatico».

Tra Ferrari, Senna e la Gazzetta: Pino Allievi, l’uomo che scrisse la Formula 1

Registro la chiacchierata. So che lei ha una registrazione rimasta in sospeso con Peterson.
«Bravissimo a guidare e basta. Lui come tantissimi campioni: bravissimi a giocare, poi quando li intervisti ti spareresti. Non sono intellettuali e sono pagati per fare quello che sanno fare. In Formula 1, come in altri sport, c’è stata però anche gente di uno spessore notevole».

Meno imbrigliati rispetto a oggi?
«Sì, ma dipende anche dal tipo di cultura e di formazione. Lauda a 30 anni non ha aperto un negozio di scarpe a Cernobbio come Recoba, ma ha dato vita a una compagnia aerea! Con quelli lì potevi parlare di tante cose. Oggi Lauda sarebbe sempre Lauda».

Non come Piastri, ad esempio?
«Sì, però ci sono dei giornalisti che non sanno fare le domande. Questo è uno dei guai del giornalismo: interessa il titolo col nome del personaggio, meno quello che dice. E questo non è giornalismo».

Com’è iniziata la sua avventura?
«Non mi volevo occupare di sport. Mi sono sempre piaciute cultura e la letteratura italiana, quindi mi occupavo di cose da terza pagina sul La Provincia di Como. Ho raccontato personaggi dello sport per il Giornale di Lecco come il pugile De Bernardi di Bellano e Fasoli di Mandello, per poi finire nel giro di Panorama, dove facevo un po’ tutto. Parallelamente ho cominciato alla Gazzetta dello Sport a occuparmi di motori poiché mi piacevano e andavo a seguire le gare».

Suo padre era in Alfa Romeo.
«Sì, era un dirigente. Ci siamo trasferiti da Dervio a Milano poiché entrambi lavoravamo lì, da pendolari».

E poi?
«C’è stata un’opportunità sia alla Gazzetta dello Sport sia a Panorama. A me però piaceva l’idea della Gazzetta poiché ho sempre amato i quotidiani. L’idea di lavorare di notte e di domenica – cosa che adesso non fa più nessuno, perché adesso i quotidiani fanno fatica a trovare ragazzi che vogliano lavorare nei festivi – era la cosa più bella. Significava fare il giornalista nel vero senso della parola. Così ho cominciato a fare molta redazione, un po’ con le moto, un po’ con le auto…».

E lì conobbe Maurizio Mosca.
«Sì, eravamo confinanti in ufficio. Per me è stato uno dei più grandi giornalisti italiani, ma si è buttato via. È sempre stato un cazzaro simpatico che si divertiva a fare le macchiette; quando è andato in televisione, ha fatto solo la macchietta e non il giornalista, così la gente ha pensato che fosse un comico mancato. Invece Mosca, dentro la Gazzetta, è stato l’uomo che ha avuto le idee più rivoluzionarie. Uno che stava lì dalla mattina alla mattina dopo. Lavorava giorno e notte, era bravo a fare i pezzi, bravo a programmare e a fare i titoli. Un fenomeno vero e proprio! Quando ha lasciato la Gazzetta, ha trovato le televisioni che volevano che lui insistesse di più sul lato macchiettistico e lui si divertiva. Però è stato uno dei più grandi giornalisti italiani di sport».

Si sarebbe occupato di calcio?
«L’ho sempre seguito: un anno ho avuto l’abbonamento del Lecco e poi del Milan, ma in generale ho sempre seguito tutto, una volta anche il Giro di Svizzera di ciclismo, perché mi interessava».

Invece, i motori.
«C’era bisogno di uno che se ne occupasse e mi è piaciuto fare quello. Probabilmente, il calcio non sarebbe stato nelle mie corde. Coi motori ti occupi di tutto: un po’ di tecnica, di business, finanza, pubbliche relazioni. Ti apre molto il cervello; se fai qualche anno la Formula 1, poi puoi fare tutto».

Perché è un mondo molto variegato?
«Perché devi avere certe conoscenze che, se sei settorializzato in altri sport, non hai e non sviluppi. I motori ti obbligano a trattare anche il lato industriale: quando vai a intervistare il presidente della Volkswagen o Gianni Agnelli devi avere una certa preparazione, oltre a doverti acculturare in continuazione».

Lei è stato tra gli ultimi a scrivere un libro con Enzo Ferrari.
«L’ultimo. Abbiamo scritto assieme “Ferrari racconta” nel 1987/88 e con Ferrari ero in ottimi rapporti. Mio padre, ai tempi dell’Alfa Romeo, aveva lavorato con Ferrari e quindi c’era una certa confidenza, che poi mi ha indubbiamente agevolato negli anni alla Gazzetta dello Sport. Magari non mi ha dato tante notizie, però mi ha messo sulla strada giusta o mi dava l’interpretazione».

Un aneddoto che sintetizzi cos’era quella Ferrari?
«Ferrari era un nome, ma era anche una fabbrica. Lui era sempre lì, una presenza costante; anche il giorno di Natale, in cui non c’era nessuno. Viveva per la fabbrica. Tante volte lo chiamavo a ridosso di ferragosto – tipo il 14, e per combinazione è poi morto il 14 agosto – per chiedergli se fosse in vacanza, scherzando. Lui mi diceva “sono in vacanza a Fiorano. Prendo il sole davanti al circuito, dove non c’è nessuno”. Era così: un personaggio solitario, che leggeva una decina di quotidiani al giorno. La prima cosa che faceva al mattino era farsi portare la rassegna stampa».

Poi lui, tranne che a Monza, seguiva sempre la Scuderia da Maranello.
«Sì, sempre negli uffici. La cosa divertente, con lui, era che puntualmente giravano voci – che oggi sarebbero amplificate dai social – che lui fosse morto. Ricordo una volta in cui ero al Gran Premio d’Argentina e mi chiamò il direttore della Gazzetta d’allora, Gino Palumbo, per dirmi “guarda che Ferrari è morto”. Mancava mezz’ora all’inizio della gara; andai in pista e chiesi a Forghieri: “Ferrari come sta?” “Bene, l’ho sentito ieri sera” e non ebbi il coraggio di dirgli la notizia, quindi chiesi se l’avesse più sentito da allora, al ché Forghieri: “No, lo sentiamo dopo la gara”. Nessuno sapeva niente, quindi richiamai la Gazzetta e riferii al direttore: “Io so che è morto”. A quel punto chiamai Ferrari a casa e mi rispose: “Ma lei non è in Argentina? Ah, voleva sapere se sono morto”.»

Aveva anticipato le voci.


«Era poi un uomo duro ma dotato di un’ironia incredibile, con cui potevi stare le ore a divertirti. E poi, quando si parlava di cose serie, era Ferrari. Era un tipo di industriale, manager, psicologo… tutto. Si è sempre tenuto a distanza dalla finanza, ha sempre voluto fare automobili. Diceva che quando gli industriali si mettevano in testa di fare i finanziari, poi andavano a rotoli. Fotografò con trent’anni di anticipo la situazione di tanti industriali italiani».

Tornando ad altri personaggi così, cosa ricorda di Lauda?
«Veniva da una famiglia miliardaria – banchieri da un lato, produttori di carta dall’altro – ed era cresciuto in quell’ambiente lì. Ha sempre trattato da solo i suoi contratti, non ha mai avuto bisogno di un manager».

Cosa che a Ferrari piaceva.
«A Ferrari piacevano quelli lì. Un pilota italiano una volta si presentò da lui accompagnato dal suo avvocato. “Bene, quella è la porta e via”, gli disse Ferrari».

Com’era vivere coi piloti dall’interno?
«Eri riconosciuto per un motivo. La Gazzetta era il primo quotidiano europeo di sport e il giornale in Europa che dava più spazio alla Formula 1. [...] (segue il testo con risposte senza ulteriori domande marcate).»

Edoardo Moneta

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