l'editoriale di Natale

Don Bortolo Uberti, prevosto di Lecco: «Il mio augurio? Che sia un buon Natale di Gesù»

"Fare Natale” significa prendersi cura dell’uomo perché l’immagine di Dio lì si nasconde e lì si rivela.

Don Bortolo Uberti, prevosto di Lecco: «Il mio augurio? Che sia un buon Natale di Gesù»
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Di don Bortolo Uberti, prevosto di Lecco

 

Una delle frasi più comuni che circolano in questi giorni, come ogni anno, quando arriva questo periodo, è: «Si respira un clima natalizio!».
A qualcuno questo clima piace, ad altri, invece, pesa; qualcuno lo attende impaziente, altri ne sono infastiditi. I segnali climatici del Natale sono i soliti: le luci e gli addobbi, i canti e le carole tradizionali, poi, come si ripete sempre, la corsa ai regali e alla spesa per i pranzi e le cene e quindi inviti, auguri…
Naturalmente non può mancare la fretta, l’ingorgo del traffico, l’affanno dei saggi scolastici, delle cene aziendali, delle scadenze da portare a termine. Più che un clima invernale, tanto più che ormai da qualche anno la neve marca visita, si respira un clima più da temporale estivo.
Potrei commentare tutto questo con le solite considerazioni: quelle circa il consumismo, la secolarizzazione e, naturalmente, l’immancabile: «Non è più come una volta, quando non avevamo niente ma eravamo contenti!».
Potrei dire così di questo clima ma non è così che la penso.
Penso piuttosto che il «clima», come si dice, possa suscitare una domanda: perché si fa tutto questo? Anzi, meglio, per chi lo si fa?
Allora, se germinasse in noi questo interrogativo, forse torneremmo a scoprire che l’aria che si respira rimanda al mistero dell’incarnazione di Gesù. I segni natalizi sono un’occasione per ricordare l’essenziale. Mi piacerebbe, questo sì, che si tornasse ad augurare: «buon Natale di Gesù», piuttosto che un asettico e circostanziato «buone feste», detto forse per paura di non urtare la sensibilità di qualcuno. Mi viene in mente un’immagine: qualche volta mi è capitato di notare, anche in una chiesa, una cornice vuota addossata a una parete o in un angolo di sacrestia. Magari una cornice antica, preziosa, senza però una tela al suo interno. A qualcuno potrebbe suscitare tristezza, io, invece, ne resto affascinato e comincio a pensare a cosa metterei dentro quella cornice e a come riempirei quel vuoto. È così anche del clima natalizio che si respira in questi giorni. Tra le corse e i tempi tirati sarebbe bello ritagliarsi uno spazio di silenzio e farsi questa domanda: con chi lo riempio? Sarebbe bello per tutti, anche per chi non crede. Perché del Natale di Gesù tutti abbiamo bisogno, oltre ogni distrazione e indifferenza. Ne abbiamo bisogno perché tutti cerchiamo un senso alla nostra vita, al lavoro e agli affetti che affollano le nostre giornate. Perché cerchiamo quiete interiore, gioia affidabile, pace vera, per noi e per il mondo. Siamo stanchi di un’aria appesantita da rassegnazione o aggressività, siamo stanchi di violenze e tensioni tra i confini del mondo e tra le pareti di casa, di noia e di banalità. L’incontro con Gesù che si fa accanto a questa umanità, oggi, è l’incontro con una parola di speranza da stringere forte. Certamente però non dobbiamo pensare Gesù come una statuina del presepio, come un’immagine di carta o di stoffa, di legno o di gesso. L’immagine che Dio ci lascia a Natale è fatta di carne, la carne dell’uomo. Allora, “fare Natale” significa prendersi cura dell’uomo perché l’immagine di Dio lì si nasconde e lì si rivela. “Fare natale” significa spendersi, anche sacrificarsi, per l’uomo, ogni uomo, quello che ho accanto ogni giorno e quello che incontro per strada, l’amico e l’estraneo, il vicino e il lontano. Questa cura dell’immagine di Dio, nella carne dell’uomo accanto, è molto concreta e prende il nome di rispetto e di cordialità, di tenerezza e gentilezza, ma anche di giustizia e di solidarietà, di perdono e accoglienza. Penso alle parole di un racconto di Jean Paul Sartre, scritto e rappresentato nel Natale del 1940 per i suoi compagni di prigionia nel campo di Treviri. Il presentatore d’immagini, personaggio della pièce teatrale, ad un certo punto fa dire a Maria: «Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. È fatta di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Mi rassomiglia. È Dio e mi assomiglia. E nessuna donna ha avuto dalla sorte il suo Dio per lei sola. Un Dio piccolo che si può prendere nelle braccia e coprire di baci, un Dio caldo che sorride e respira, un Dio che si può toccare e che vive». Questo è l’augurio che vorrei fare a tutti: vivere così il Natale, prendendo in mano un Dio che ci assomiglia, che è fatto della nostra stessa carne, un Dio che si può toccare e da cui lasciarsi toccare nel più intimo di se stessi. Un Dio che respira e vive, ancora oggi, proprio qui, tra noi, tra le nostre braccia. Allora sarà veramente un buon Natale di Gesù.


Don Bortolo Uberti, prevosto di Lecco

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