Violenza di genere

Donne non libere di chiedere aiuto

urante l’emergenza sanitaria poche chiamate ai centri d’aiuto

Donne non libere di chiedere aiuto
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Il lockdown imposto dal Coronavirus chiude in casa una marea di persone, comprese quelle per cui stare nella propria abitazione non è facile e, talvolta, nemmeno sicuro. Anche la cronaca nazionale, nei giorni scorsi, ha dato spazio al problema di quelle donne che, già vittime di violenza da parte del partner, ancor di più in questi giorni soffrono per l’impossibilità di uscire e cercare sostegno.

Donne non libere di chiedere aiuto

«Non stanno arrivando richieste, e questo è un dato che ci allarma», dice Linda Pozzi, psicologa di Telefono Donna e della Comunità Montana. «Le donne in questo momento non sono libere di chiedere aiuto, in quanto sono sempre in casa con qualcuno. Addirittura, notiamo una differenza tra chi già è riuscito a distaccarsi dal compagno - con le quali riusciamo a mantenere un contatto con colloqui a distanza - e chi invece non ha tale libertà». Una tendenza preoccupante, confermata anche da Amalia Bonfanti, presidente dell’associazione meratese L’altra metà del cielo: «Le chiamate sono in calo, molte meno rispetto ai trend cui eravamo abituate. Le telefonate che riceviamo sono per più interlocutorie, donne che chiedono genericamente informazioni. Il timore è che finito questo periodo scoppierà il finimondo, e purtroppo emergerà tutto quello che in queste settimane sta accadendo».

 

Ma Young Inclusion prosegue

Nonostante il Coronavirus, il progetto Young Inclusion prosegue. Ancor più seriamente. «La selezione degli ospiti nelle Community Care avvenuta nei primi mesi di start-up ci ha trovati “a posto”», spiega Alcide Gazzoli, project manager del progetto sostenuto parte del bando Intere Italia-Svizzera, che promuove l’inclusione sociale di soggetti fragili. «Essendo già organizzate e strutturate quelle azioni di terapia e di recupero educativo in luoghi fisici ben delineati, non si è avvertito il trauma». Da rivedere o quantomeno mettere in stand-by, semmai, è l’organizzazione di eventi che il progetto prevedeva. «La paura e, a volte, anche l’angoscia sono – com’è noto – sentimenti umanissimi», prosegue Gazzoli. «Come ci viene insegnato, la paura mette in moto anche una reazione di giusta difesa. Gli ospiti sono monitorati, le educatrici e le responsabili delle Community Care sono molto attente ai contatti, alle frequentazioni eventuali (parenti, amici…), a tutte quelle situazioni che potrebbero essere a rischio. In questi momenti si verifica tutto il nostro povero limite umano e professionale. Così come l’enorme bisogno di umanità e di compagnia che siamo. Paradossalmente pero in questo deserto si vede chiaramente quello che conta e quello che invece non serve a vivere. I colleghi, gli amici, i famigliari e gli ospiti delle comunità avvertono sensibilmente come noi viviamo, e perché».

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