Ascoltare il dolore, schiodare il rancore, riparare i legami"

"Reificavamo i nostri bersagli, disumanizzando noi stessi": a Lecco la testimonianza dell'ex brigatista Bonisoli

Ieri sera a Teatro Invito l'incontro "Carità e giustizia riparativa" promosso dalla Caritas e da "L'Innominato - Tavolo lecchese per la giustizia restorativa"

"Reificavamo i nostri bersagli, disumanizzando noi stessi": a Lecco la testimonianza dell'ex brigatista Bonisoli
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"Le persone che volevamo colpire venivano reificate, ma non ti accorgevi che, così, disumanizzavi anche te stesso": una testimonianza forte quella di Franco Bonisoli, ex appartenente alle Brigate Rosse, oggi impegnato nei percorsi di giustizia riparativa, che partecipò all'agguato di via Fani, nel quale fu sequestrato Aldo Moro. Oggi Bonisoli e Agnese Moro, figlia dell'ex presidente della Democrazia Cristiana, sono legati da un rapporto di amicizia. Un'amicizia che sembrava impossibile, ma che invece è nata grazie al confronto e al dialogo attraverso un percorso di giustizia riparativa. Di questo si è parlato nella serata di ieri, giovedì 3 aprile 2025, in una sala di Teatro Invito che faticava a contenere il numeroso pubblico, nel corso dell'incontro "Carità e giustizia riparativa. Ascoltare il dolore, schiodare il rancore, riparare i legami", organizzato dalla Caritas Ambrosiana e dalla Caritas di Zona nell'ambito delle iniziative per il 50° anniversario di istituzione, in collaborazione con "L'Innominato - Tavolo lecchese per la giustizia restorativa".

Il numeroso pubblico presente nella sala di Teatro Invito

"Reificavamo i nostri bersagli, disumanizzando noi stessi": a Lecco la testimonianza dell'ex brigatista Bonisoli

Dopo l'introduzione di Luciano Gualzetti, direttore di Caritas Ambrosiana, e di Giovanna Marelli, responsabile della Caritas di Zona, la serata è entrata nel vivo con l'intervento di Franco Bonisoli, ex appartenente alle Brigate Rosse, oggi impegnato nei percorsi di giustizia riparativa. Bonisoli, che partecipò all'agguato di via Fani a Roma, il 16 marzo 1978, durante il quale fu sequestrato Aldo Moro e furono uccisi i componenti della sua scorta, ha raccontato il suo percorso di vita, da quando - giovanissimo - decise di entrare nelle Brigate Rosse, al periodo del carcere, fino alla profonda crisi che gli fece mettere in discussione l'ideologia a cui aveva così fermamente creduto fino a quel momento e - con essa - tutta la sua vita.

Luciano Gualzetti

"Il 16 marzo 1978 avevo 23 anni ed ero convinto che, attraverso la lotta armata, avrei potuto distruggere un mondo che ritenevo sbagliato e crearne uno migliore - inizia così il racconto di Bonisoli - Ho iniziato da molto giovane a fare politica, in un contesto in cui soffiava il vento del cambiamento contro le ingiustizie. Ricordo che percepivamo la guerra in Vietnam come una ferita aperta che ti interrogava: cosa faccio ora? Continuo a vivere la mia vita o cerco di oppormi? La mia visione del mondo era quasi manichea: un mondo dove i buoni erano divisi dai cattivi, e dove i buoni erano gli sfruttati e gli oppressi e i cattivi i capitalisti". Da qui la decisione, a soli 19 anni, di entrare nelle Brigate Rosse: "La mia decisione è stata paragonabile ad una scelta missionaria, che mi ha portato a mettere in discussione tutta la mia vita, che, fino a quel momento, era stata una vita normale, fatta di impegno sindacale e sociale; mi ha portato a prendere documenti falsi e ad armarmi. La scelta è stata quella di provare a fare la rivoluzione, ben sapendo che avrei potuto anche finire in carcere o morire. Ho vissuto quattro anni da clandestino, facendo crescere l'organizzazione in una logica di guerra che purtroppo è terribile, perché tu sei convinto di essere nel giusto e pensi che la violenza che usi sia liberatrice. Così le persone che volevamo colpire venivano reificate, ma non ti accorgevi che, in questo modo, disumanizzavi anche te stesso".

Franco Bonisoli

Bonisoli finisce così in carcere di massima sicurezza, in "un regime carcerario durissimo che aveva solo l'effetto di indurirmi ancora di più". "Per chi dice: 'Bisogna metterli in carcere e buttare via la chiave', vi dico che così si alza solo ancora di più l'asticella della violenza", sottolinea l'ex brigatista.

Poi, la svolta: "Al maxiprocesso di Torino, un giudice ci disse di creare una commissione insieme per risolvere i problemi del carcere: a questo punto veniva meno lo scontro; questo gesto aveva favorito il dialogo, anche con il mondo esterno - spiega Bonisoli - Una volta tornato nel carcere in cui ero prima, trovai i miei compagni con un vocabolario molto ristretto, duro, mentre io ormai avevo una visione più ampia. Ebbi una crisi durissima, in cui iniziai a non credere più nella giustezza di questa rivoluzione: fu, per me, più difficile uscire dalla lotta armata che entrarci, perché significava mettere in discussione tutta la mia vita, pensare al dolore dei miei genitori, e soprattutto alle vittime, quei nemici che prima non avevano un volto mentre ora si palesavano come persone. L'ideologia che mi sosteneva e che mi permetteva di affrontare le brutture del carcere veniva a mancare; decisi di confidarlo ad un altro carcerato, che mi confermò di provare le stesse cose: decidemmo quindi di fare uno sciopero della fame perché volevamo morire. In sei contro tutti prendemmo questa decisione perché ci sembrava l'unica scelta di vita possibile. Dopo diversi giorni di digiuno, il cappellano del carcere si era rifiutato di celebrare la messa di Natale, inviando una lettera ai giornali nella quale scriveva che si rifiutava di dire messa mentre sei persone stavano morendo, e sostenendo che, se in passato c'erano stati i terroristi, adesso c'era il terrorismo delle carceri. Il cappellano ci chiamò 'fratelli', noi che eravamo considerati i peggiori criminali. Lo sciopero della fame divenne mediatico". Si posero così le basi della legge di riforma carceraria dell'86, conosciuta come la Legge Gozzini.

"Dopo 22 anni e mezzo, finita la pena, ho ricostruito la mia vita con una famiglia, un lavoro e l'impegno sociale - conclude Bonisoli - Ho iniziato a pensare: 'Ho pagato ad una giustizia retributiva, ma chi ripaga le persone a cui abbiamo causato danni irreparabili?'. Dopo anni questa possibilità mi è stata data: ho incontrato Agnese Moro, figlia di Aldo Moro, abbiamo iniziato a parlarci e a guardarci negli occhi; non è stato facile, ma è stato possibile. Per sette anni noi ex brigatisti ci siamo visti una volta all'anno con i parenti delle vittime e una rappresentanza di cittadini: prendevamo in autogestione una casa e trascorrevamo qualche giorno insieme. Al di là dei momenti di dialogo, quando si mangiava nel refettorio, ex detenuti, cittadini e parenti delle vittime si mischiavano, non restavano divisi, così come quando ci si doveva occupare della pulizia della casa: mi sono reso conto che, dietro a tutte le ideologie, nella semplicità c'era l'essenza della vita. Questo percorso mi ha permesso di liberarmi dalle mie gabbie mentali, da quel complesso di colpa che ti incatena al passato anche quando sei libero. Con qualcuno, poi, è nato anche un rapporto di amicizia".

Durante l'incontro, moderato dal giornalista Vittorio Colombo, sono intervenuti anche Ivo Lizzola, già professore ordinario di pedagogia sociale e pedagogia della marginalità, del conflitto e della mediazione all'Università di Bergamo, e Bruna Dighera, psicologa e mediatrice penale, referente de "L'Innominato - Tavolo lecchese per la giustizia restorativa". "Quando entri in carcere per la prima volta ne esci sorpreso: 'Sono come noi!' - sottolinea Lizzola - Poi però capisci: 'Noi siamo come loro'. E in quel momento, quando esci dal carcere, ti scopri non innocente. Oggi moltissimi giovani carcerati non sono consapevoli del fatto che il reato di cui sono stati autori sia sbagliato: bene e male sono confusi; bisogna ridisegnare degli orizzonti di senso. Per fare giustizia bisogna ritessere la vita comune, per rendere un valore quello che desideriamo, come relazioni pacifiche, equità, rispetto per le differenze... Fare giustizia non è una questione da relegare agli operatori della giustizia: ci riguarda tutti". "La giustizia restorativa - la chiosa di Dighera - è un modo per far sì che la comunità possa reimparare insieme a 'disfare' il male".

Ivo Lizzola e Bruna Dighera
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